Brunetta Bluff

ATTUALITA’ – Fannulloni / Ha vantato risultati clamorosi contro gli assenteisti. Ma ora si scopre che purtroppo non sono diminuiti. E che le statistiche riportavano soltanto i dati ottimistici. Mentre il ministro ha penalizzato soprattutto le donne.

Il ministro Renato Brunetta

I benefici effetti prodigiosi della ‘cura Brunetta’ per i fannulloni della nostra pubblica amministrazione sono il fiore all’occhiello di questo governo. Della sua terapia miracolosa, il ministro figlio di un venditore ambulante veneziano è riuscito a convincere tutti, dagli statistici agli stessi politici d’opposizione. Per la gente comune, grazie a lui l’impiegato lavativo è stato rimesso in riga. D’altronde come interpretare altrimenti il mirabolante meno 40 per cento di assenze per malattia propagandato a più riprese dal suo ministero? La realtà, però, è diversa dai fuochi d’artificio alla festa del Redentore. E poche coraggiose voci fuori dal coro fra gli statistici del nostro Paese sgonfiano quei numeri, ridimensionando l’ormai celebre effetto-Brunetta. Che si fonda su tre pilastri di cartapesta.

Il primo: l’analisi si limita agli enti che ci tengono a farsi belli della propria virtuosità (mentre gli asini se la battono). Il secondo: nei suoi conti mancano all’appello grossi pezzi dell’apparato statale – come l’istruzione e le forze di polizia – nonché ministeri o comuni importanti. Il terzo: le sue statistiche tagliate con l’accetta spesso finiscono col premiare chi non se lo merita e punire chi non ha colpa. Senza dimenticare che gli stessi dati del ministero iniziano a riconoscere che ‘l’onda’ si sta ritirando.

Riflusso napoletano.

Che il travet non abbia più così paura degli strali di Brunetta, infatti, è proprio il suo ministero a raccontarcelo. La riduzione delle assenze per malattia registrata a settembre dello scorso anno, quando si era raggiunto il meno 44,6 per cento, è stato il picco dal quale poi non si è fatto altro che scendere. In modo graduale, ma inesorabile: meno 41 a novembre, meno 33 ad aprile, meno 27 a giugno, per finire con il meno 17 di luglio. Mai come in quest’ultimo mese ci sono state tante amministrazioni che hanno invertito la tendenza, col meno che si è andato trasformando in più. Al Comune di Napoli le assenze si sono impennate del 30 per cento, nonostante il fatto che a palazzo San Giacomo i dipendenti siano diminuiti. Anche l’altra grande città del Regno delle due Sicilie, Palermo, si distingue per la propria indifferenza al ministro-castigatore. Con una particolarità: fra gli uffici che hanno lavorato meno, negli ultimi quattro mesi dell’anno scorso, ci sono quelli addetti a raccogliere soldi per il Comune (servizio Tributi e Tarsu). Alla faccia della lotta all’evasione. Sempre stando ai numeri ministeriali, non è che a Nord se la passino meglio. A Parma, per esempio, chi lavora in Comune a luglio se l’è squagliata: più 32 per cento, rispetto allo zero di giugno e al meno 21 per cento di maggio. E il malcostume non cambia se ci spingiamo ancora in su, per fare tappa in un paesino brianzolo piuttosto noto: ad Arcore, dove il premier ha casa, le assenze sono salite del 27 per cento rispetto all’anno scorso. In barba al suo illustre e industrioso cittadino.

A scoppio ritardato.

L’afflosciarsi dell’effetto Brunetta è però solo una parte di quello che il ministro non dice. Se oggi il fannullone italiano inizia a essere una specie protetta, non è solo merito suo (anche se lui se lo arroga tutto). Come dimostrano i dati della Ragioneria generale dello Stato, è già da fine 2004 che si verifica nella popolazione dei dipendenti pubblici una concreta diminuzione di chi si dà malato. Ovverosia già molto prima dell’era post Brunetta del pubblico impiego . Alla Provincia a Pisa lo sanno bene: dall’inizio del 2005 l’ente toscano è riuscito nell’impresa di abbassare del 20-30 per cento il tasso d’assenteismo. “Tutto quello che potevamo recuperare l’abbiamo recuperato, motivo per cui ora le assenze oscillano di mese in mese, seguendo cause fisiologiche come il tempo o i cicli influenzali”, dice il direttore generale Giuliano Palagi, non curandosi del più 17,5 per cento fatto segnare a luglio.

Al di là di questa ‘appropriazione indebita’, cosa più grave nel bluff mediatico del ministro-economista è la mancanza di attendibilità dei dati che diffonde ogni mese. “Le sue cifre aprono una finestra solo su una parte del panorama della nostra pubblica amministrazione: quella migliore”, fa notare Giulio Zanella, ricercatore all’Università di Siena e firma del sito di economisti noisefromamerika.org. Appellandosi alla collaborazione delle singole amministrazioni, il ministero infatti non pubblica tutti i numeri degli enti – né potrebbe – ma solo quelli inviati di loro spontanea volontà. Per capirci, è come se a scuola venissero interrogati solo i ragazzi che si offrono volontari: ai somari per cavarsela basta stare zitti. “Però in questo modo il campione non è rappresentativo, e i risultati tanto strombazzati non hanno alcun valore scientifico, perché inevitabilmente sovrastimano la realtà”, aggiunge Zanella. E non ha aiutato nemmeno “l’operazione di ‘pulitura’ dei dati fatta dall’Istat”, perché si è trattato, per l’appunto, solo di una pulitura. “Mi aspetto che i prossimi dati ufficiali della Ragioneria generale dello Stato, che rappresenteranno la prova del nove, ridimensionino quel 40 per cento di Brunetta”, conclude il ricercatore senese. Facendo piazza pulita della retorica politica.

Il paradosso di Sondrio.

Che i numeri del ministero siano tutt’altro che uno specchio fedele della realtà lo si capisce anche da altre falle, più o meno grandi. Prima di tutto c’è quella postilla con cui si avvertono i lettori che nell’analisi mensile non rientrano scuola, università, regioni e pubblica sicurezza. Cioè un bel pezzo d’apparato statale. Inoltre, gli stessi enti i cui dati trovi un mese, magari latitano il mese prima. Tanto che spiccano frequenti assenze di lusso: a luglio mancavano i dati del ministero degli Interni e di quello dei Trasporti, della Provincia e del Comune di Milano, dei Comuni di Torino, Bari e Venezia. Quasi tutti, ad eccezione del Viminale e del capoluogo pugliese, erano invece presenti nella rilevazione del mese precedente. Infine, a scapito delle verità di Brunetta va la scarsa collaborazione delle amministrazioni nel loro insieme: meno della metà delle 10 mila burocrazie italiane compila i moduli on line. Certo oggi va meglio che agli inizi, quando già nei primi cinque mesi dall’approvazione della legge 133 Brunetta aveva sbandierato il suo famoso 40 per cento: all’epoca solo il 15 per cento di quella che è l’intera burocrazia italiana aveva risposto alle sollecitazioni ministeriali.

C’è poi un ultimo errore da prendere in considerazione, del quale già avvertono a scuola quando ti insegnano a fare la media fra due numeri: se io mangio due polli e tu non mangi niente, se non stai attento finisci col sostenere che abbiamo mangiato un pollo a testa. È il malinteso in cui si incappa prendendo alla lettera i dati di Brunetta. Se scorri i numeri più aggiornati fra quelli forniti dal ministero, al secondo posto nella top ten trovi il Comune di Sondrio, con un aumento delle ore di assenza per malattia di oltre il 90 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Che sia Sondrio, proprio la terra natìa di Giulio Tremonti, la capitale dei fannulloni d’Italia? Non esattamente. A un’analisi appena meno superficiale, infatti, ti accorgi di come stiano le cose in realtà. “Quella del ministero è una statistica piuttosto rozza”, contesta Alcide Molteni, sindaco del comune lombardo: “Ora, io ho circa 150 dipendenti. Tre di questi hanno malattie croniche che li obbligano a casa tutto l’anno, chi per l’infarto, chi per seri problemi polmonari, e loro da soli coprono gran parte delle assenze. Ad agosto, per esempio, su 87 giorni di malattia, in tre ne hanno fatti 62, e tutti gli altri ne hanno fatti 25”. Per converso è facile capire che, come a Sondrio si punisce chi non ha colpe, la media ‘del pollo’ può tranquillamente finire col premiare chi invece non lo meriterebbe.

Le donne nel mirino.

Sotto la scure di Brunetta, però, non ci finiscono solo i malati gravi. I primi risultati di uno studio ancora in corso all’Istat – sul numero di persone che fanno orario ridotto a causa di malattia in una settimana tipo – smorzano gli entusiasmi dei brunettiani convinti, concentrandosi sui primi sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Ebbene, il primissimo (e forse l’unico) colpo inferto dalla sua crociata antifannulloni si è abbattuto nell’estate 2008 su una ben precisa fetta dei dipendenti pubblici: le donne del Centro Italia. E basta. Che cosa avranno mai fatto le donne di Roma per meritarsi questo? Una possibile spiegazione ce la suggerisce Riccardo Gatto, ricercatore Istat, e autore dello studio insieme ad Andrea Spizzichino: “D’estate, una volta chiuse le scuole, si hanno più problemi a trovare qualcuno a cui affidare un bimbo, e quindi è possibile che ci si assenti solo per gestirli meglio. Infatti, la differenza significativa rispetto agli uomini sul lavoro è che sono ancora le donne a farsi tipicamente carico delle mansioni familiari”.

E sempre le donne, secondo un calcolo fatto da Zanella, fanno mediamente due giorni di assenza l’anno in più degli uomini, per evidenti ragioni familiari e biologiche. Fra l’autunno e l’inverno, invece, ci si ammala per davvero. E proprio negli ultimi tre mesi del 2008, sempre secondo lo studio di Gatto, l’effetto Brunetta semplicemente “non emerge più dall’analisi dei dati”. “Già nei tre mesi estivi il fenomeno non è particolarmente rilevante”, osserva, “perché passa dall’1,8 dell’anno prima all’1,3 per cento. Ma nel quarto trimestre la legge sembra aver esaurito il suo effetto”. Conclusioni pesanti e fuori dal coro, quelle di Gatto, pronunciate durante un seminario a ‘casa’ del ministro. E passate sotto silenzio.

Un mini-risultato.

Insomma, malati cronici, donne con figli, ma di fannulloni puniti, per ora, neanche l’ombra. Fatta la tara, che cosa resta concretamente di questa ‘cura Brunetta’? Secondo Zanella, in ultima analisi, si potrebbe parlare di un 10 per cento in meno di assenze. Ma qui finisce. “Il fatto che quest’anno i numeri del ministro si siano ridotti è normale, perché le assenze non possono continuare a calare all’infinito”. Un effetto, quindi, c’è stato, ma è “un puro effetto di prezzo, dovuto alla decurtazione dallo stipendio dei giorni di assenza. Se oggi le arance costano un euro, e domani due, ne comprerai di meno. Qui è la stessa cosa. Ognuno fa i propri conti: prima potevo ammalarmi quanto volevo, adesso non più, quindi cercherò di fare meno assenze. Allora si raggiunge un nuovo equilibrio, in cui le assenze tornano a essere costanti”.

Certo è che però non basta tenere la gente in ufficio (magari con 38 di febbre) per farla essere produttiva. “La soluzione non è costringere la gente ad andare al lavoro in qualsiasi condizione di salute, visto che si può arrivare a perdere fino a 50 euro al giorno in caso di malattia”, contesta Michele Gentile della Cgil: “Quel che servirebbe, in realtà, sarebbero più controlli da parte dei dirigenti, cosa che nel privato avviene molto più che nel pubblico”, suggerisce Gianni Baratta della Cisl. Insomma, conclude Gentile, “la diagnosi è giusta, ma la terapia è sbagliata”.

(L’Espresso, 10/9/2009)