ATTUALITA’/ Colf. Badanti. Fattorini. Braccianti o spalatori di neve. La crisi fa tornare appetibili per gli italiani i mestieri finora appaltati agli extracomunitari. Con un’unica parola d’ordine: ‘Pur di lavorare’.
Dimenticate la badante slava, presto potrebbe diventare una figura del passato. La crisi che investe il mondo del lavoro ridisegna un paese rétro, un po’ in stile anni ’50, con gli italiani che, stretti dalla necessità di portare a casa qualche euro in più, ora si reinventano di volta in volta collaboratori domestici, spazzini, portapacchi e conciatori. Tutti mestieri di grande utilità, ma che un tempo ci si sarebbe permesso il lusso di snobbare, lasciandoli a chi invece non ne poteva fare a meno. Oggi non più, e nel 2009 in Italia sfuma il concetto di ‘lavoro per immigrati’.
I primi dati a conferma di questa tendenza li ha diffusi Unioncamere con l’indagine annuale Excelsior, realizzata insieme al ministero del Welfare, che prende in considerazione 100 mila imprese con almeno un dipendente. E ci permette di rintracciare a ritroso i primi passi di questo cambiamento sociale. Se prendiamo in considerazione i lavori ‘meno qualificati’, infatti, gli italiani che li svolgono sono andati aumentando con regolarità: dall’8,5 per cento del 2007, al 9,3 del 2008, al 10,2 del 2009. In particolare, considerando la categoria dei conduttori di impianti e macchinari, italiani e stranieri se la battono ai rigori (10,8 contro 11 per cento), con uno scarto ridotto quasi a zero nel giro di un solo anno. Era di due punti e mezzo nel 2008, quando la crisi finanziaria ha cominciato a riversare i suoi effetti sull’economia reale. Non molto diversa la situazione per gli operai specializzati: anche qui la differenza fra italiani e immigrati è striminzita (17,7 contro 19,3), e si è ridotta di due punti nel medesimo anno. Hanno le stesse impressioni alla Randstad, quarta in Italia fra le agenzie per il lavoro, con le loro 170 filiali sparse nel Paese: “Rispetto al 2008 è cresciuta del 30 per cento la domanda di italiani per mansioni che solitamente erano svolte da stranieri”, spiega Patrizia Origoni, “posizioni che fino a qualche tempo fa non avrebbero neanche preso in considerazione, ma che oggi, con la crisi, non possono trascurare. Pur di lavorare.”.
Per capire come la crisi stia cambiando gli italiani, basta prendere quei mestieri che per eccellenza si associano all’immigrato: badante e colf. Chi non ha assistito nell’ultimo decennio all’invasione di rumene, ucraine, bulgare o moldave, tutte entrate nelle nostre case a prendersi cura di nonni o parenti anziani? Ebbene, le donne dell’Est da qualche tempo si trovano a fare i conti con nuovi rivali: indigeni. In Veneto, ad esempio, i corsi per collaboratori domestici finanziati dalla Regione quest’anno hanno visto per la prima volta il sorpasso degli italiani. “Quando abbiamo iniziato, cinque anni fa”, spiega Mario Vettorazzo, direttore del Centro regionale migranti, “i veneti iscritti erano solo il 2 per cento. A marzo di quest’anno siamo arrivati al 53”. Una palla che diventa valanga con le ultime iscrizioni: nel paesino di Vigonza, ad esempio, su 28 partecipanti, ben 20 sono di quelle parti. Donne, certo, ma anche uomini. È il caso di Michele, 47 anni, fino ad agosto montatore di macchine utensili, che dopo aver perso un lavoro fatto per vent’anni s’è visto costretto a reinventarsi badante. Anche perché tre bambini piccoli e un mutuo non danno tanto spazio alla fantasia. Se ci si sposta a Roma la situazione non cambia. Come ci dice Angelika, una ragazza polacca da diversi anni nel nostro Paese, “quest’estate la persona dove lavoravo ha messo un annuncio sul giornale per cercare una nuova badante. Le hanno risposto tante donne italiane, a cui andava bene anche vitto e alloggio”. Del resto, per chi perde il posto e non sa come pagare l’affitto, una cameretta a casa di una vecchia signora è una soluzione per tirare avanti. È quello che è capitato a una ragazza-madre licenziata da un centro commerciale Carrefour della capitale. Mentre una sua collega, anche lei licenziata e in mobilità, si arrangia da un anno a questa parte facendo pulizie a ore, e saltuariamente la baby sitter per anziani. Il fenomeno lo conoscono bene anche in Lombardia. L’Agenzia regionale per il lavoro ha notato, confrontando i primi sei mesi di quest’anno con quelli del 2008, che nelle nuove assunzioni per lavori domestici (e quelli più ‘umili’ in generale nel settore dei servizi), gli italiani sono passati dal 50 al 52 per cento, mentre gli stranieri sono scesi dal 50 al 48.
Non è solo un problema ‘domestico’. Fra gli sbocchi per un italiano costretto a riciclarsi, e accontentarsi, c’è anche quello del portapacchi. Ce lo racconta Graziano Benedetti, responsabile poste della Cgil. “Alla Tnt di Firenze, ad esempio, i nuovi assunti sono quasi tutti italiani”. Dalla Tnt, che è il più grosso rivale di Poste Italiane, alla Defendini di Torino, alla Romana Recapiti, “nel recapito e nel trasporto postale privato, in generale c’è un forte ritorno della manodopera italiana, anche a tempo determinato”. Se desta sorpresa un ritorno degli italiani alla consegna pacchi, figuriamoci lo stupore di quelli dell’Amsa, la nettezza urbana di Milano, che da 13 anni il bando per arruolare raccoglitori di foglie e spalatori di neve non si davano neanche più la pena di pubblicarlo. Tanto c’erano comunque gli immigrati. Quei 75 euro per otto ore di lavoro al giorno, però, oggi sembrano acquisire un nuovo fascino, tant’è che nelle prime due settimane l’azienda comunale ha ricevuto 1.600 risposte, il 70 per cento da italiani. Percentuale ribaltata rispetto al passato. Si inizia con la raccolta delle foglie, si continuerà con la neve.
Che dire poi di tutti quegli italiani che bussano alla Randstad di Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, per tornare a lavorare nel settore conciario locale, che per vent’anni era stato al 90 per cento dominio assoluto degli extracomunitari? La gente del posto l’aveva abbandonato per le altre aziende (metalmeccaniche e della gomma plastica) che erano state aperte nella zona. E che oggi stanno chiudendo. La caratteristica comune, evidentemente, è il ritorno al passato. A Rovato, in provincia di Brescia, giovani italiani e padri di famiglia disoccupati danno la loro disponibilità all’agenzia per andare a vendemmiare. Spalla a spalla con gli immigrati che un tempo se la sbrigavano da soli.
Cifre e numeri ufficiali però non forniscono il senso preciso di quello che sta succedendo. Perché il più delle volte chi si trova con l’acqua alla gola, oltre ad accettare un mestiere meno qualificato rispetto al precedente, si trova anche a dover ingrossare le fila dei lavoratori in nero. “Ogni giorno vediamo sempre più persone in cassa integrazione o in mobilità che per poter arrivare a fine mese si dedicano ai mestieri più umili”, dice Silvana Morini della Filcams Lazio, la categoria Cgil che si occupa di commercio e servizi, “ed è ovviamente tutto in nero”. L’ovvio sta nel fatto che per queste persone il lavoro irregolare è una necessità, visto che in caso contrario perderebbero il (pur scarno) sussidio statale. Non a caso l’ultimo rapporto Censis prevede che con la crisi l’economia sommersa aumenterà, raggiungendo a fine anno un ‘fatturato’ di ben 275 miliardi.
La perdita del vecchio posto, fisso o precario che sia, fa degli italiani un popolo di aspiranti badanti, colf, facchini, spazzini, camerieri, baristi e via dicendo. Ma a concorrere all’exploit nazionale in questi mestieri c’è anche un altro fattore. Lo spiega Giovanni Principe, direttore generale dell’Isfol, Istituto per lo sviluppo della formazione professionale: “Sicuramente la prima causa è l’aumento dei disoccupati, però c’è da considerare anche l’effetto della tolleranza zero del governo. Gli immigrati regolari che perdono il lavoro e non lo ritrovano diventano clandestini: a quel punto molti se ne vanno per non rischiare di essere espulsi, liberando così posti per gli italiani”. E infatti gli ultimi dati Censis riportano che il tasso d’occupazione degli immigrati è diminuito dello 0,7 per cento.
Ma se per gli stranieri è più difficile lavorare, non c’è problema: c’è sempre un italiano pronto a prenderne il posto. “Negli ultimi mesi le nostre filiali segnalano un cambiamento di rotta fra chi si presenta in cerca di lavoro”, spiegano alla Metis, altra importante agenzia interinale, “se prima, soprattutto i giovani non valutavano offerte ritenute poco gratificanti, o inferiori al loro titolo di studio, ora sembrano più disposti ad accettarle. Parliamo in particolare di posti da operaio, non solo specializzato, e di ruoli impiegatizi generici: ora si tende ad accettare di buon grado contratti di somministrazione anche brevi. Pur di entrare nel mondo del lavoro”. Sempre ‘pur di lavorare’. Pur di lavorare si accetta quello che tecnicamente si definisce ‘downgrading’, e che in realtà si traduce con lo svendere le proprie competenze. Prendi Alberto, 45 anni e dieci di esperienza come capo officina. Ma quando la sua azienda mette tutti alla porta, accetta un posto come manutentore macchine dalla Randstad, che è un bel passo indietro rispetto al ruolo di responsabilità che aveva prima. Percorso a ritroso anche per Piero, da impiegato a operaio. Dal ’79 al 2007 gestiva gli ordini e gli agenti in un’azienda di trasporti, e quando stato licenziato si è dovuto ‘accontentare’ di un posto all’assemblaggio e montaggio presso un’azienda metalmeccanica.
La crisi sta facendo tornare di moda nel ricco e produttivo Centro-nord persino un vecchio mito che ormai popolava solo i sogni dei giovani meridionali: il posto (fisso) nelle forze armate. Il generale Mario Marioli, alla guida di tutti i comandi militari dell’Italia centro-settentrionale, gioisce del nuovo appeal di cui sembra godere l’esercito: le richieste d’arruolamento dei ragazzi al di sopra del Tevere sono cresciute del 59 per cento, dalle 4.833 del 2008 alle 7.727 del 2009.
Insomma, è un’Italia che sta andando ‘avanti nel passato’, che sembra quella anni Cinquanta, fra lavori manuali e voglia di impiego statale. Un fenomeno che per ora riguarda quasi esclusivamente i precari, i primi a saltare quando la crisi da finanziaria è diventata produttiva: circa 300 mila in meno nei primi sei mesi dell’anno, secondo le stime Cgil. Mentre nel frattempo i lavoratori a tempo indeterminato tengono duro. “Soprattutto grazie alla cassa integrazione”, fa notare la Morini: “Il vero pericolo è ciò che accadrà quando i dodici mesi concessi finiranno. Se si pensa che già oggi i cassintegrati devono arrotondare.”. Magari ci saranno tante storie come quella di Sabrina, bresciana di 48 anni. Dopo aver perso il lavoro di segretaria ha cominciato a fare di tutto, accettando dall’agenzia interinale lavori a scadenza settimanale, pur di portare a casa qualche euro. Una determinazione che però ha pagato: Sabrina oggi lavora come operaia metalmeccanica in un’azienda grafica. Meno di una segretaria, ma è pur sempre un lavoro.
(L’Espresso, 11/12/2009)