«La struttura verticistica e autoritaria di una setta è il sogno inconfessato di ogni leader di partito» scrivono Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, e come dargli torto. Una tentazione rilevante della politica, specie in epoca quale quella in cui viviamo, caratterizzata da una fortissima crisi di rappresentanza.
di Lucia Annunziata
Innegabilmente, la politica si è già mossa nel senso di sostituire altre forme di aggregazione a quelle delle riu-nioni di sezioni, comitati e sottoscala. Del resto, come negare il fascino del potere, l’attrazione del grande lea-der, la promessa di soluzioni immediate e radicali alla fatica della vita rispetto alle promesse di un lontano av-venire cui bisogna tutti i giorni applicarsi? Tra il modello ad alto contenuto psicologico-erotico del richiamo di una organizzazione verticale che ruota intorno a una fi-gura carismatica, e la spersonalizzata aggregazione buro-cratica dei partiti tradizionali, la partita non si gioca neppure.
In queste righe avrete sicuramente letto un richiamo alla leadership esercitata da anni su buona parte di que-sto Paese dall’attuale premier Silvio Berlusconi. Ma que-sto libro non parla di lui, e nemmeno di altri partiti che pure vengono in mente: non è passato tanto tempo, del resto, da quando il Partito comunista italiano veniva co-munemente definito, nel bene e nel male, proprio una setta.
Questa inchiesta racconta e discute delle sette vere e proprie, e della loro presenza in Italia. La politica italiana vi appare, ma come oggetto del desiderio, strumento di conquista: le sette infatti, secondo gli autori, hanno in corso una lenta ma sicura scalata alla politica. Proprio per il loro essere, naturalmente, per definizione, uno strumento di «convinzione», di «organizzazione» e di «ideologizzazione» dei gruppi.
Dobbiamo preoccuparcene? La prima reazione è un tondo «no». Dopotutto di che si tratta, se non delle soli-te pietose vicende di emarginati, soli e influenzabili? Certo magari questi poveretti hanno anche nomi famosi — il Cruise che non trova pace o l’insicuro Travolta che ancora oggi non sembra essere convinto di saper far al-tro che ballare… In realtà è esattamente questo modo di pensare che Occulto Italia intende picconare. Contro ogni luogo comune, alimentato dai media che si occupa-no solo di sette sataniche perché più appassionanti, il li-bro ci svela che queste organizzazioni sono tante e sono presenti tra noi. Hanno molti volti (o meglio molte ma-schere) e tante cause diverse, incluse «buone cause».
Scrivono gli autori: «Ci sono almeno due miti che ab-biamo voluto sfatare con questo libro. Il primo è quello per cui le sette sa rIbero un fenomeno periferico, che coinvolge soltanto una piccola parte della società. Invece le trovi in Municipio, in Regione o in Parlamento, le tro-vi nell’azienda o nel negozio sotto casa, le trovi a scuola o all’università — con lezioni e corsi che anche tuo figlio potrebbe seguire senza che tu te ne renda neanche conto — e perfino quando vai al museo o a una mostra. Le trovi al tuo fianco quando ti batti per la pace, per l’ambiente, per i diritti umani e le libertà individuali, per la tutela dei bambini, o contro la droga e il razzismo. Le trovi lodate e strombazzate sulle pagine dei giornali, pubblicizzate sul piccolo schermo come sugli spalti di uno stadio. Le trovi che si aggirano per i corridoi degli organi di gover-no internazionali, al Palazzo di Vetro dell’Onu o all’Emi-ciclo del Parlamento europeo a Bruxelles. Le ritrovi che ronzano intorno al tuo attore, musicista, cantante o spor-tivo preferito. Insomma, le trovi ovunque.
Il secondo mito è quello per cui nella ragnatela tessu-ta dalle sette ci finirebbero solo i pazzerelli, i poveracci, i diseredati, i senz’arte né parte, gli ingenuotti, i creduloni e í superstiziosi. Non è vero. Dentro ci restano impigliati avvocati, medici, giornalisti, imprenditori, manager, per-sonalità del mondo della cultura, politici — anche i più avveduti — e perfino psicologi e militari. Nel corso della nostra inchiesta ne abbiamo conosciuti parecchi, di fuo-riusciti che rientrano in queste categorie. Li abbiamo in-contrati, ci siamo andati a cena, ci siamo fatti una birra al pub, abbiamo parlato della loro vita passata, ma anche di quella presente, abbiamo conosciuto le loro idee, ab-biamo riso e scherzato insieme, li abbiamo guardati negli occhi. Erano per la maggior parte persone intelligenti e spiritose, colte e argute. Dimenticate dalle istituzioni (perché i loro racconti, a chi non sa niente di sette, paio-no fastidiosamente fuori dal mondo). Ma oggi di nuovo in piedi, nel mondo.»
Il movimento che il libro descrive ha un chiaro punto di arrivo: quello che Del Vecchio e Pitrelli chiamano «un Santo Graal pieno di benedizioni», che sarebbe poi l’in-tesa con lo stato italiano. Un accordo che vale non poco in termini di denaro e potere. Ma su tutto questo, vi ri-mando alla lettura.
Prima di chiudere voglio solo segnalarvi un altro inte-ressante effetto collaterale di questo libro: ricordarci che l’Italia è forse l’unico Paese dove non c’è più il reato di plagio. È l’effetto a onda lunga di un caso che ha avuto qualche decennio fa uno straordinario impatto sulla opi-nione pubblica. Parliamo del 1964 e di Aldo Braibanti, intellettuale di sinistra, laureato in filosofia teoretica, con un passato di carcere nel Ventennio per la sua attività antifascista. Braibanti nel 1964 inizia una relazione senti-mentale con Piercarlo Toscani e Giovanni Sanfratello.
Nell’Italia divisa da una nuova linea Maginot dell’eti-ca privata e pubblica, il padre di Giovanni porta il figlio in manicomio e denuncia Braibanti per plagio. Il caso di-venta occasione per fare il processo a politica e morale della nuova sinistra. A favore di Braibanti si mobilita in-fatti il meglio degli intellettuali dell’epoca, Pier Paolo Pa-solini, Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Mario Gozzano. Braibanti perde il processo, e divenne il primo ma anche l’ultimo condannato per plagio in Italia.
Da allora si è stabilita nella opinione pubblica italiana una totale sovrapposizione fra libertà di pensiero e rifiu-to del concetto di plagio. È giusto che sia così? O non serve invece, di fronte a nuovi pericoli, riaprire una di-scussione (e un abbozzo c’è in Parlamento) sulla necessi-tà di un assetto legislativo per questo reato?
Gli autori aprono, coraggiosamente, anche questo ta-volo, calandovi peraltro una carta a sorpresa. Ricordano infatti che uno dei politici italiani che più ha mostrato sensibilità nel tempo per questo tipo di pericolo sociale, costituito dalla manipolazione mentale e psicologica dei deboli, specie se giovani, è oggi seduto al massimo livello di responsabilità del Paese. Si chiama Giorgio Napolita-no ed è il Presidente della Repubblica Italiana.