LIBRI / Si sa: la via più semplice per perdersi è la scorciatoia. Così, sedotti dalla tabula rasa del pensiero, centinaia di persone finiscono ogni anno nelle grinfie delle sette. Pensando di trovarsi, si smarriscono ancor di più.
di Nicola Mirenzi
Ma contrariamente a ciò che si pensa, non perché siano creduloni o mezzi fessi. Tra loro ci sono persone istruite e di spessore: avvocati, professori, giornalisti, liberi professionisti. Ognuno con la sua storia personale, naturalmente. Ma con un tratto comune a tutti: il desiderio di trovare una soluzione sbrigativa alle angosce della vita. Certo, in Italia non se ne parla mai. Se non quando c’è di mezzo l’afrodisiaco dell’omicidio e del sesso, come nel caso da copertina del satanismo. Forse perché nemmeno si sospetta sin dove arrivino i loro tentacoli. Forse perché si crede che siano robetta, cose da stralunati. Invece nel nostro paese le sette proliferano, e arrivano a livelli altissimi. Sino in parlamento, anche. Come nel caso di Mimmo Scilipoti, ex deputato dipietrista, noto per esser passato a miglior vita berlusconiana grazie a un rintuzzo offerto alla disperata maggioranza di centrodestra. Scilipoti è però anche il fondatore del cosiddetto movimento olistico, l’embrione di un vero e proprio partito della new age italiana. Tanto quanto basta per non affidargli mai e poi mai il Forum nazionale antiplagio e l’Osservatorio sulle sette. Cosa che è invece puntualmente avvenuta. Perché si sa anche questo: l’Italia non sarebbe l’Italia senza i conflitti d’interesse.
Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, inchiestisti rodati de L’Espresso, si sono così messi a indagare seriamente sulla questione delle sette. E grattando sotto la superficie dei luoghi comuni, hanno scovato un pericoloso intreccio di guru, affari, santonismo, istituzioni. Traffici che i due raccontano ampiamente nel loro bel libro Occulto Italia (Rizzoli, 507 pagine, 12.50 euro). Che svela nei dettagli il modo in cui le sette cooptano persone, come le tengono invischiate, quanto sia difficile uscirne. Del Vecchio e Pitrelli vanno a trovare quelli che ce l’hanno fatta a lasciarsi alle spalle le pressioni e le minacce. Si fanno raccontare le loro storie, le sviscerano, le mettono nero su bianco. Poi scavano ancora nelle pagine dei giornali e documentano le tecniche con cui le sette si fanno pubblicità; danni i nomi e i cognomi dei testimonial d’eccezione; ricostruiscono i meccanismi che li conducono nelle aule dell’università; tracciano la mappa delle relazioni politiche e istituzionali che gli consentono di far ciò che non sarebbe lecito fare; infine mettono il carico da novanta su un vuoto legislativo imbarazzante con cui fa i conti il nostro paese. Quello della manipolazione mentale. Riaprendo, meritoriamente, una questione antica.
Ma grazie al loro libro si scopre innanzitutto che in Italia ci sono sette per tutti i gusti: di destra e di sinistra, anti-psichiatriche e ambientaliste, psuedo-filosofiche e simil-buddiste. E di tutte le epoche: quelle ispirate all’anticomunismo degli anni cinquanta, al “peace and love” dei sessanta-settanta, a “un altro mondo è possibile” d’inizio millennio. Ci sono per esempio gli Umanisti. Accaniti nemici dell’ecologismo. Pensiero che accostano, nientemeno, che a un modello totalitario nuovo: «Alla base di queste forme di neofascismo – scrivono gli umanisti – c’è una profonda negazione dei valori umani. Anche in certe correnti ecologiste devianti succede qualcosa d’analogo, visto che privilegiano la natura rispetto all’uomo. Esse non sostengono più che il disastro ecologico è propriamente tale perché mette in pericolo l’umanità: lo è perché l’essere umano ha attentato contro la Natura. Secondo alcune di queste correnti, l’essere umano è un essere infetto che in quanto tale infetta la Natura. Per loro sarebbe stato meglio che la medicina non avesse avuto alcun successo nella lotta contro le malattie e per prolungare la vita. “Prima la Terra” urlano in modo isterico, richiamandoci alla memoria i proclami del nazismo».
Quello umanista è un movimento diffuso soprattutto in Sud America e nei paesi latini europei. Il loro capo carismatico era Mario Rodriguez Cobos, morto nel settembre del 2010. Hanno anche un colore ufficiale: l’arancione. E una sorta di libro sacro: Il messaggio di Silo. Chi ha studiato all’università La Sapienza di Roma conosce abbastanza bene il loro gruppo universitario, I Corvi, che pubblica un giornalino omonimo distribuito gratuitamente nei corridoi delle facoltà. Ma anche chi segue la politica li avrà intravisti negli spazi elettorali televisivi. Il numero dei loro adepti italiani si aggira intorno alle tremila e cinquecento persone. Il loro scopo è sovvertire il sistema. Ma per farlo utilizzano il più comune degli strumenti di potere: il verticismo. L’uso della politica che fanno è assolutamente funzionale al proselitismo. Si mischiano nei cortei pacifisti, utilizzano i nomi di personaggi famosi per pubblicizzare le loro campagne, si nascondono dietro slogan su cui sono tutti d’accordo. Una volta tirate dentro le persone, uscirne diventa però sempre più difficile. La devozione all’attività del gruppo deve essere totale. Vengono imposti tagli netti alle relazioni familiari. Il lavoro all’interno della setta si fa man mano più pervasivo. L’autonomia finanziaria viene ridotta a zero. Così come la libertà di giudizio. Tutto per creare una dipendenza assoluta alla figura dei leader carismatici di turno. Formando delle persone completamente dipendenti. Impossibilitate a compiere un solo passo fuori dal recinto. Stretti come sono nelle celle psicologiche dei sensi di colpa e della soggezione al capo.
Questa è una caratteristica comune a tutte le sette. Il loro potere si struttura irreversibilmente dall’alto verso il basso. La sottomissione degli adepti è indiscutibile. Non ci sono libertà consentite. Anche perché chi è entrato, in fondo, lo ha fatto proprio per mettersi in «fuga dalla libertà», per dirla col titolo di un famoso saggio di Erich Fromm. Il bisogno di avere delle risposte, piuttosto che interrogativi, è l’ancora interna che tiene attraccate le persone a questi porti. La setta dell’Ontopsicologia ne fornisce probabilmente il migliore esempio. Il suo fondatore, Antonio Meneghetti, sostiene di essere andato oltre Freud, Adler e Jung. E a chi gli domanda se lui sia uno psicanalista, risponde: «No, perché la psicoanalisi analizza, io guarisco». Di Jean Paul Sartre dice: «Era brutto e basso, dalla coscienza rozza e infantile».
Meneghetti è anche «l’intellettuale di riferimento» di Marcello Dell’Utri. Il quale, quando decide insieme a Silvio Berlusconi che è arrivata l’ora di rompere l’egemonia culturale della sinistra, crea i circoli del buon governo, invitando a parlare, tra gli altri, proprio Meneghetti. Che di buon governo se ne intende, eccome. I suoi giudizi su Stalin, per esempio, sono così morbidi da sfiorare l’ammirazione. Non per caso, però. Tempo dopo infatti, Meneghetti ispirerà ad Andrea Pezzi – famosissimo vj, e suo seguace – la creazione di un sito internet chiamato Ovopedia. Che non avrà vita lunga. Ma avrà il tempo di far apparire giudizi accondiscendenti anche nei confronti di Adolf Hitler.
Il vero tarlo di Meneghetti è in effetti la psicologia del leader. E chi più dei grandi dittatori è stato un Capo con la “C” maiuscola? L’idea della direzione assoluta delle sette non è per niente diversa da quella dei totalitarismi. Ma non solo da quelli. La politica contemporanea, con tutta la sua retorica di democrazia e partecipazione, non è affatto immune dalla mistica del comando assoluto. E i legami che questo libro rivela tra politica e sette non sono per niente casuali. Come scrivono Del Vecchio e Pitrelli, «la struttura verticistica e autoritaria di una setta è il sogno inconfessato di ogni leader di partito». I politici hanno infatti molto da guadagnare dalle relazioni coi capi delle sette. I voti che essi procurano sono sicuri. I loro adepti non si permetterebbero mai di dire no.
Ma qui arriviamo al tema che veramente interroga l’opinione pubblica italiana. Fino a che punto può essere consentito ad alcune persone di esercitare un potere così pervasivo su delle altre? C’è un limite oltre il quale la soggezione deve essere fermata? La legge dovrebbe regolare i confini superati i quali si delinea un vero e proprio crimine? «Questo libro non contiene notizie di reato – scrivono gli autori -. Per il semplice fatto che il reato che servirebbe a punire la manipolazione mentale non esiste». Oggigiorno la magistratura non può fare nulla per aiutare le persone che finiscono dentro la rete delle sette e non sanno come uscirne. Sino al 1981 c’era il reato di plagio. Ma l’uso che di esso è stato fatto nel 1964 contro Aldo Braibanti – intellettuale comunista accusato di aver aggirato due ragazzi inducendoli ad avere rapporti sessuali con lui – rivela la sua inadeguatezza, sconsigliandone la restaurazione. Il punto che Del Vecchio e Pitrelli però mettono al centro dell’attenzione è il fatto che dopo la dichiarazione d’incostituzionalità del reato di plagio il parlamento italiano non ha fatto nulla per colmare il vuoto legislativo. In questa spazio bianco le sette hanno potuto muoversi liberamente perché contro di esse non si può procedere in nessun modo. Ma quando una persona viene manipolata sino al punto di non potere più disporre di se stessa è possibile non intervenire per tutelare la sua libertà? In Spagna e in Francia i parlamenti si sono assunti la responsabilità di regolare la materia. In Italia ancora no. È per questo che gli autori indicano in quello francese un modello possibile per il nostro Paese. In fondo non mancano anche da noi le personalità sensibili al tema. Primo fra tutti: Giorgio Napolitano. Che da sempre è favorevole a un intervento normativo. Anche se la cosa che servirebbe di più, in Italia, è un dibattito pubblico serio. Dal quale potrebbe venire fuori, probabilmente, una legge come si deve.
(Terra, 3/4/2011)