Onorevoli in carriera

ATTUALITA’ / Molti impiegati e liberi professionisti. Pochissimi operai. Una pattuglia di imprenditori. E un quinto di Casta. Ecco le professioni di provenienza dei 3 mila eletti in Camere, Regioni, Province e Comuni.

C’è il giornalaio di Genova che ti ha venduto il quotidiano e il tassista che ti ha accompagnato alla stazione. C’è il comico milanese che hai visto in tv o il legale sardo che ti ha aiutato ad annullare il matrimonio. E c’è anche il disoccupato che stava in fila dietro di te all’ufficio di collocamento di Venezia. Poi te li ritrovi in politica, come tanti altri cittadini dai mestieri più disparati. Ma che lavoro fa il politico italiano? “L’espresso” ne ha scattato un’istantanea, censendo le professioni di circa 3 mila eletti: i parlamentari uscenti di Camera e Senato, i consiglieri delle venti regioni italiane, e quelli delle province e dei comuni più popolosi. Un campione rappresentativo che permette, dati alla mano, di sfatare qualche mito e di confermarne altri.

Impiegati da record
L’ossatura della classe politica italiana è formata dagli impiegati, cui spetta il primo posto in assoluto con un 18 per cento, più del doppio degli imprenditori: una costante per i nostri partiti, visto che nelle ultime due legislature in Parlamento sono rimasti pressoché invariati. Staccano persino avvocati, notai e commercialisti (tutti insieme al 12,7), e cioè quelli che nell’immaginario comune più facilmente rivestono i panni del politico. Il bronzo spetta ai docenti, universitari e non, che sorprendono con un 11,2 per cento. Sul podio però le cose cambiano se si prendono i liberi professionisti nel loro insieme, inclusi medici, farmacisti, ingegneri e architetti: la percentuale decolla al 22,4 per cento. Il che vuol dire che quasi un politico italiano su quattro ha un Ordine a cui votarsi. Altri, invece, di santi ne hanno ben pochi. Sono 19 in tutto gli operai – fra consiglieri, deputati e senatori – che rappresentano quei sette milioni al lavoro nelle fabbriche e nelle imprese italiane. «La classe operaia non è andata in paradiso, ma è finita nel dimenticatoio», nota Carlo Carboni, autore di “La Società Cinica – Le classi dirigenti nell’epoca dell’antipolitica”. Così è, tranne per qualche sporadica presenza nel Pd (lo 0,7 per cento) e in quella Sinistra Arcobaleno che proprio della difesa dell’operaiato fa la sua bandiera (appena il 2,8).

Colpisce anche lo zero assoluto fra le fila della stessa Forza Italia che il voto degli operai l’ha strappato alla sinistra. E la situazione nel futuro Parlamento non cambierà: solo i due ex ThyssenKrupp (Antonio Boccuzzi per il Pd e Ciro Argentino per la Sa) si possono dire certi del proprio seggio. Mito da sfatare, invece, è quello del magistrato che fa politica. Alla visibilità di personaggi come Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio e Felice Casson, infatti, non corrisponde una tendenza nazionale. Sono addirittura meno rappresentati degli operai: 14 in tutto, la maggior parte dei quali siede in Parlamento. Altro gruppo dimenticato, infine, è quello degli ingegneri (meno del 2 per cento). Lo denuncia Carboni: «È un segno della poca modernità del nostro ceto politico. Nel mondo economico sono onnivori, rubano il posto anche gli economisti nel ruolo di manager, ma in politica praticamente non ci sono». Il leghista Roberto Castelli e l’ex ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi sono a tutti gli effetti delle mosche bianche. Sulla base di questi dati si può forse affermare cha la società italiana si riflette nella sua classe politica? Secondo Carboni la politica italiana è, sì, lo specchio dei suoi rappresentati, «ma solo dal ceto medio in su».

Camice e doppiopetto
Scendendo sul territorio, i dati ci dicono qualcosa in più sull’egemonia impiegatizia nella nostra politica. La contrapposizione fra impiegati e imprenditori negli enti locali diventa lampante. I politici-impiegati la fanno da padrone soprattutto al Sud, dove raggiungono il 26,4 per cento, ovvero dieci punti in più rispetto al Nord (16,4). In maniera speculare i politiciimprenditori fioccano nella parte settentrionale del Paese (10,1) rispetto a un più contenuto 7 per cento nel Mezzogiorno. È un cliché, ma i dati lo confermano: a Nord gli industriali pesano di più, mentre a Sud è la pubblica amministrazione che fa sentire la propria voce. Sanità in primis: stupisce l’abbondanza di medici, che qui superano l’11 per cento, cioè quasi il doppio del dato nazionale (fermo al 6,2). Emblematico il caso siciliano, dove a palazzo dei Normanni su 90 seggi di medici ne siedono ben 14. La loro presenza nelle assemblee regionali si spiega facilmente: la sanità è ormai questione di competenza regionale, ed è ai singoli consigli che spettano le nomine dei dirigenti delle Asl, i quali a loro volta nominano i primari ospedalieri. Spicca infine, nelle regioni del Centro, il dato sui funzionari di partito. Qui i politici di professione si attestano sul 15,5 per cento, cifra che dà parecchia pista sia al Nord (10,4) che al Sud (6,3). Fatto che si può spiegare, come osserva Carboni, con la tradizionale egemonia del vecchio Pci nelle regioni rosse (Toscana, Emilia e Umbria). Nonché con la presenza dei palazzi della politica nel Lazio.

Le toghe del Cavaliere
Queste differenze in realtà vanno inquadrate in un’ottica più ampia, e cioè quella della complementarietà delle principali famiglie politiche italiane. In altri termini, Pd, Pdl, Sa e Udc posseggono un corpo dirigente dalle caratteristiche ben precise. Per Sinistra Arcobaleno e Partito democratico lo zoccolo duro è composto da funzionari di partito, impiegati, pensionati, docenti universitari e insegnanti: tutti insieme rappresentano il 60,1 per cento della coalizione di Fausto Bertinotti e il 55,3 del partito di Walter Veltroni. Entrambi i partiti mostrano infatti i tratti somatici dei loro genitori della prima Repubblica, Pci e Dc. Lo stesso avviene per l’Udc, che con il suo 23,6 per cento di dipendenti prestati alla politica si conferma, democristianamente, partito impiegatizio per eccellenza. Opposta la situazione per il Pdl: liberi professionisti, imprenditori e manager costituiscono il 57,7 per cento degli esponenti di centrodestra. «Nonostante tutti i discorsi sulla scomparsa di destra e sinistra», chiosa Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica a Bologna, «è evidente che le differenze restano». Il ceto politico del Pdl, dunque, affonda le sue radici altrove: fra quelle professioni liberali che della destra italiana, come sottolinea il docente, hanno sempre formato e continuano oggi a formare lo zoccolo duro. A partire da medici, il 5,96 per cento, commercialisti, 4 per cento, e soprattutto avvocati, il 15,73. I numeri parlano chiaro: di avvocati il Pdl da solo ne ha più del doppio del Pd, e più del triplo della Sinistra Arcobaleno. La culla, insomma, di quell’antipolitica che di Silvio Berlusconi è stata un cavallo di battaglia. È pur vero che la nuova formazione ha già iniziato ad assumere le cattive abitudini della vecchia partitocrazia: pullulano i riconfermati, che costituiscono ben l’80 per cento delle liste presentate in vista di aprile. Nel complesso professionisti e imprenditori rappresentano i principali punti di contatto tra Forza Italia e Alleanza nazionale. I promessi sposi mostrano di fatto una certa “affinità elettiva” che trascende l’operazione politica del Pdl. Il matrimonio sarà pure di convenienza, ma la loro fusione non è tanto “a freddo” quanto si sarebbe potuto pensare. Lo conferma Carboni: «I due partiti si completano l’un l’altro, formando un blocco comune di imprenditori e professionisti. Sono assolutamente identici, ed è un segno che la scelta di Forza Italia e di An è stata determinata da una somiglianza non solo della rappresentanza, ma della base elettorale». In dettaglio, entrambe le metà del cielo del Pdl sono composte esattamente per il 15 per cento da imprenditori. Ma fra i due i valori sono simili anche per il resto di quella che gli inglesi chiamerebbero la loro “constituency”, il loro elettorato: i commercialisti (4,5 e 3,6 per cento, rispettivamente), i dirigenti e gli onnipresenti impiegati. L’Italia dei Valori è l’outsider che rompe questo schema. A conti fatti l’Idv è il partito di centrosinistra che più somiglia a uno di destra. E questo non solo perché sventola la bandiera dell’antipolitica, ma anche per la sua nutrita pattuglia di liberi professionisti: da soli medici e avvocati ne costituiscono il 32,2 per cento, ossia quasi uno su tre.

Figli della Casta
Ma qual è il vero peso della casta in Italia? O meglio, qual è l’incidenza dei politici di carriera sul popolo degli eletti? Ebbene il “tasso di casta” supera il 20 per cento, staccando di due punti l’altro lavoro “preferito” dai politici, cioè quello impiegatizio. Insomma: un politico su cinque in Italia vive di politica. A questo numero si arriva sommando la percentuale nazionale dei funzionari politici e degli ex sindacalisti tout court (10,8 per cento) a quella dei politici che si dicono giornalisti (5,2) e ai pensionati (4,2). L’accostamento si spiega col fatto che per i politici di solito quello del giornalista è un titolo conquistato con la militanza. Basti pensare al fatto che i vari D’Alema, Fini, Veltroni, Follini, Mastella, Rotondi o Storace il tesserino ce l’hanno grazie al praticantato svolto nei giornali di partito. Per non parlare della carica dei portavoce, che anche a queste elezioni hanno fatto man bassa di posti blindati nelle liste. Qui gli esempi si sprecano: Paolo Bonaiuti per Berlusconi, Roberto Rao per Casini, Piero Martino per Franceschini, Walter Verini per Veltroni e Sandra Zampa e Silvio Sircana per Prodi. Quanto ai pensionati, invece, la loro inclusione nei politici di professione dipende da un altro dato di fatto: sono persone che adesso hanno il tempo per fare politica. Il tasso di casta ovviamente non è omogeneo, e varia da partito a partito. Ma prevale a sinistra. In testa c’è la Sinistra Arcobaleno, col suo 31,4 per cento, seguita dal Pd col 26,3. Molto distanti Idv (15,2), Lega (13,2) Pdl (12,5) e Udc (11,5). Confrontando i nostri dati con quelli Eurispes 2001 vediamo che negli ultimi anni i professionisti della politica, invece di tornare a livelli “fisiologici” (ossia quelli che Pasquino definisce essenziali a un corretto funzionamento della democrazia) sono andati regolarmente aumentando, e questo grazie all’effetto perverso del “Porcellum”, la legge elettorale delle liste bloccate. E così, conclude, «in assenza di un sistema uninominale e a differenza degli inglesi o dei francesi, oggi gli italiani non bocciano né promuovono i propri rappresentanti, ma si limitano a ratificare le scelte delle segreterie di partito».

(L’Espresso, 4/4/2008)