ATTUALITA’ / Il primo desiderio è una casa. E sognano sicurezza e lavoro. Una ricerca racconta i rom d’Italia.
Una famiglia rom al campo Casilino 900
Se uno zingaro vuole una casa e un lavoro stabile, che senso ha chiamarlo ‘nomade’? Un’indagine coordinata dall’Osservatorio Soleterre onlus ed elaborata dall’istituto Axis Market Research & Technology su Rom e Sinti in Italia smonta pezzo a pezzo una serie di pregiudizi che la storia e purtroppo anche la cronaca dimostrano ancora pericolosi. Per la prima volta vediamo la loro vita attraverso i loro occhi, o meglio gli occhi dei 286 intervistati in sei città italiane (Milano, Torino, Genova, Pavia, Reggio Emilia e Roma). E i risultati sono sorprendenti: quella dei sinti, dei rom (comunità che niente hanno a che vedere con la Romania) o dei meno noti camminanti, di origine italica, è una realtà che evidentemente sfugge ai luoghi comuni. Ma non a quei bisogni che tutti hanno, a partire da una casa e da un lavoro. Così la ricerca, realizzata per l’Osservatorio nazionale permanente per la tutela dei diritti fondamentali e il contrasto alla discriminazione, capovolge alcuni luoghi comuni.
Quando si pensa a uno zingaro di solito lo si immagina sempre in movimento. E invece il 75 per cento degli intervistati vive dove si trova da almeno quattro anni (la permanenza media è di sette anni e mezzo) e il 61 per cento quando pensa a un suo futuro migliore immagina una casa. E vorrebbe dalla propria vita, “sicurezza, ordine e pulizia” (11 per cento). Allontanando, per usare le loro stesse parole, “i casinisti” dalle proprie comunità. Sogni di vita normale, difficili però da realizzare visto che il 18 per cento ancora anela a ‘lussi’ come acqua, elettricità, servizi igienici e raccolta della spazzatura.
Gli intervistati (rappresentativi della comunità italiana, fra le più piccole d’Europa con 150 mila persone) aprono così le porte dei loro campi. E si viene a scoprire che sei su dieci un lavoro ce l’hanno (fra ambulanti, operai, muratori o nella raccolta del metallo) e che proprio il lavoro è in cima ai loro desideri (76,5 per cento). Ma anche che l’accattonaggio non è la norma (2), né il campare genericamente di ‘espedienti’ (12). Pochi i domatori, trapezisti e musicisti (5 per cento) e ancora più rari i giostrai che, a sorpresa, sono meno dei mediatori culturali (3 per cento contro il 2,5).
Questi ultimi sono un gruppo in crescita, fondamentale per ogni prospettiva di integrazione di una minoranza linguistica che non è ancora riconosciuta come tale, ma che, come si legge nelle conclusioni, ha bisogno di gente che l’aiuti a “comunicare meglio”. Anche per superare quella che nella ricerca viene definita una “debolezza psicologica” di base: quasi due terzi degli intervistati tendono a sentirsi “la parte debole” rispetto agli italiani, e solo un terzo si considera “alla pari”. Forse per questo i genitori sembrano tenere particolarmente a far imparare ai propri figli a leggere e scrivere l’italiano: stando agli intervistati tre su quattro sono in grado di farlo.
Le difficoltà di comunicazione si riflettono in numerosi aspetti della vita degli zingari d’Italia: ad esempio solo poco più della metà degli intervistati è consapevole dell’opportunità di avere assistenza medica. “È proprio su questa consapevolezza che bisogna andare a lavorare”, racconta Damiano Rizzi, presidente di Soleterre: “Caso emblematico è quello dell’Opera Nomadi di Milano, che ha formato mediatori rom impiegati nei consultori familiari per accompagnare le donne alla maternità”.
Secondo i rom, gli italiani stessi non sempre ci tengono a farsi capire. E si dividono fra mano tesa e pugno chiuso. Da un lato c’è il volontario delle associazioni (che raccoglie il 98,5 per cento dei giudizi positivi), l’insegnante (94,5) e il “proprio medico” (per il 98 per cento li aiuta sul serio). Dall’altra figure a volte più ‘critiche’, come il vigile/poliziotto (il 21 per cento ha dichiarato di esser stato “cacciato via in malo modo”), e l’operatore del Comune (la stessa percentuale ha dichiarato di non aver avuto risposte utili o aiuti concreti).
Il rapporto con le scuole è controverso. Se con l’insegnante si parla volentieri (più di una volta l’anno nella metà dei casi, almeno una volta nel 19 per cento), i problemi nascono con i genitori degli altri bambini, sintomo di un dialogo difficile da parte di chi alla cultura zingara guarda con sospetto. Subito dopo sulla lista nera c’è la scuola in sé e per sé. I dati indicano infatti che, superate le elementari, frequentate nel 78 per cento dei casi, arriva il crollo: alle medie la regolarità scende a poco più della metà, mentre alle scuole superiori arriva solo l’8 per cento. Per superare ogni resistenza, per esempio, a Torino i volontari di Opera Nomadi hanno organizzato un pulmino che prende i bambini dai campi e li accompagna a scuola, stimolando la loro frequenza.
Certo è che il rapporto con gli italiani non è sempre facile, tra porte chiuse e diffidenza. Quello che non ti aspetti, quindi, è che quando gli chiedi: “Chi ti può aiutare a essere più felice?”, il 55 per cento ti risponda “le istituzioni”. Addirittura più della propria comunità (47,5). Una risposta da cittadini modello.
(L’Espresso, 30/5/2008)