Il pesce parla turco

ATTUALITA’ / Orate dal Mar Nero. Calamari thailandesi. Totani del Polo Sud. Ecco che cosa arriva sulle tavole degli italiani nella stagione del massimo consumo ittico.

Sano, fresco, locale. Mai come d’estate il dilemma dell’onnivoro appare di facile soluzione: il pesce. Che si tratti di mare o di montagna, di prede cadute nelle reti tra le onde o che hanno abboccato all’amo dei laghi alpini, il piatto delle vacanze sembra sicuro. Ma fino a che punto possiamo fidarci? Certo, il primato ittico è indiscusso e spesso viene confermato anche dai prezzi che fanno confondere pescherie con gioiellerie.

Chi garantisce però la promessa di genuinità e freschezza in un mercato dove ormai si tuffano spigole allevate industrialmente, orate dell’altra sponda del Mediterraneo o totani congelati direttamente nella rotta dell’Antartide? Per non parlare della tentazione del crudo, tra sushi e carpacci, con il pericolo di venire colpiti a tradimento dal micidiale mitile ignoto?

Reti senza frontiere
È proprio in luglio e agosto, infatti, secondo Fipe-Confcommercio, che i prodotti ittici la fanno da padroni: 65 mila tonnellate finiscono sulle nostre tavole. In due mesi spazziamo dal piatto un quarto del consumo annuale. Fra i manicaretti preferiti ci sono orata e spigola, mazzancolle e gamberetti, cozze e vongole veraci. Tra quelli di fiume regna incontrastata la trota (salmonata e non), seguita da salmone e pesce persico.

A ben guardare, però, spesso si tratta di un’orata turca o di calamari thailandesi o di un trancio di pescespada spagnolo. E può accadere nel carrugio di un ristorantino ligure vedere accumularsi cassette di totani delle Falkland. Tre mari e una flotta di pescherecci tra le più grandi del Mediterraneo, infatti, non bastano a placare la nostra voglia: solo il 40 per cento della domanda viene coperto da pescatori e allevatori italiani.

Tutto il resto prima di approdare nel piatto sguazzava al largo delle coste francesi o spagnole o addirittura per mari esotici e lontani come il Golfo del Siam e le acque della Patagonia. L’Ismea, centro studi di riferimento per il settore, lo conferma: “Nel 2007 la Grecia e la Turchia hanno soddisfatto più di tre quarti del fabbisogno nazionale di spigole e orate fresche”. Di italico sulle nostre tavole ne arriva ben poco.

Anche perché sui piatti della bilancia pescato e allevato si stanno sempre più allineando: ancora secondo l’Ismea nel 2007 l’acquacoltura ha saziato il 47 per cento del mercato italiano, con una crescita inarrestabile rispetto al 45 del 2006 e al 43 dell’anno precedente. In pole position secondo Altroconsumo cozze e vongole, davanti alla trota, che con le sue 40 mila tonnellate l’anno è il pesce più allevato dalle nostre parti.

La pinna venuta dal freddo
Meno pescato, però, significa anche meno fresco. E l’Ismea ne sta constatando il declino. Solo nella prima metà di quest’anno se n’è mangiato quasi il cinque per cento in meno rispetto al 2007 (già in calo). Il punto non è che gli italiani non abbiano voglia di pesce. Più che altro non sono disposti ad andare in pescheria, a squamarlo, sviscerarlo, spinarlo. E a sopportarne la puzza. A tenere a galla i consumi ci pensano così surgelati e inscatolati (in aumento del 2,8 per cento). Secondo la società di ricerche di mercato Iri i primi – da soli – valgono 600 milioni di euro l’anno, e crescono del 3,2 per cento. Certo, far saltare in padella per cinque minuti i bastoncini o aprire una scatoletta di tonno per farsi un’insalata è più comodo. Forse è per questo che i bastoncini da soli quest’anno schizzano del 7,8 per cento. Ma è anche perché le famiglie non possono più permettersi di spendere quei 30 euro al chilo per una spigola o un’orata di cattura (soprattutto se 40 euro, secondo l’Istat, è la spesa media mensile per il pesce).

Beati i poveri
Si stringono i tempi, si alleggerisce il portafoglio, ma l’italiano ancora non capisce che fra svenarsi per degustare i bocconcini di cernia al ristorante, e risparmiare scongelando gli anelli di calamari, esiste una terza via. Poco chic, ma con un look casual che racchiude sapori preziosi. È quella, spesso snobbata, del cosiddetto ‘pesce povero’. Che poi così povero non è, visto che, come ricordava una vecchia pubblicità progresso, il pesce azzurro è ricco di proteine e ha pochi grassi.

Gli ambientalisti di Marevivo hanno promosso un progetto per il recupero di quelle specie che (non avendo mercato) normalmente finiscono rigettate in mare. Non sono poche: su 719 commestibili, solo 30 arrivano in pescheria. E anche fra quelle ci sono comprimari trascurati. Sgombro, spatola e sarda non avranno nomi affascinanti ma “sono comunque fra i pesci più buoni dei nostri mari”, assicura lo chef palermitano Filippo La Mantia. “Bisogna poi riscoprire tutte quelle parti che di solito vengono buttate quando si sfiletta il pesce. Ad esempio con la testa e tutto quel che c’è intorno alla lisca ci faccio il brodo per il couscous. E i rimasugli li uso per cucinare delle ottime polpette”.

“Senza contare”, nota Silvestro Greco, presidente del consiglio scientifico di Slow food-Slow fish, “che i pesci azzurri è più facile trovarli veramente freschi, dato che a congelarli e ricongelarli non ci si guadagna”.”Il fatto è che, paradossalmente per un paese quasi del tutto circondato dal mare, in Italia del pesce manca la cultura”, sostiene Marco Rossetti, curatore della guida ‘Il Mare in Tasca’, “e si vive ancora molto di moda. Solo oggi nei ristoranti si sta tornando al pesce azzurro, con un migliore rapporto qualità-prezzo”.

Tra cuore e tasche
Passare dallo status symbol dei pranzi domenicali al ristorante, a una quotidianità del pesce non è solo questione di educazione del palato. Ma di salute. “Nell’arco di una settimana un giorno mi farei le sarde, a pranzo o a cena, un altro giorno un bel pesce bianco, un branzino o un’orata, cercando di sceglierlo bello fresco. E per cambiare un’altra volta mi cucinerei un piatto di spaghetti alle vongole, cuocendole bene”: parola di Franca Braga, nutrizionista di Altroconsumo, che raccomanda alternanza.

Ci sono tanti motivi per inserire con regolarità il pesce nella propria dieta, spiega, e in particolare il pesce azzurro. “Tanto per cominciare sarde, alici, aringhe e sgombri sono ricchissimi dei famosi omega 3, che abbassano il tasso di colesterolo e trigliceridi”. In poche parole fanno bene al cuore e al budget. Non fa altrettanto bene il nobile salmone: “Decisamente grasso. Un ottimo pesce, ma non abusiamone, perché concentra residui imparentati con le famigerate diossine”.

Frittura di illeciti
Tutto sta a tenersi informati, e a leggere attentamente le etichette. Quelle del prodotto fresco o congelato devono indicare (per legge): nome commerciale della specie, se sia pescato o allevato, zona di cattura o nazionalità dell’allevato, e prezzo di vendita al chilo. Ma le associazioni dei consumatori denunciano: “Solo il 31,6 per cento dei banchi di pesce nei mercati rionali presenta tutte le informazioni”, riporta il Movimento difesa del cittadino. Ma anche quando le etichette ci sono, secondo Altroconsumo, sono spesso incomplete.

Si salvano gli ipermercati: “La grande distribuzione in Italia ad oggi è l’unica che dà garanzie perché fa controlli di filiera molto seri”, conferma Greco, “mentre a livello nazionale i controlli sono modesti, e non per mancanza di leggi. I pesci che arrivano sono troppi e l’Italia ha pochi uomini”. Fra i pochi strumenti di difesa del cittadino/consumatore ci sono i carabinieri del Nas e le capitanerie di porto, che quanto a etichette ne vedono di tutti i colori: secondo la Guardia costiera le violazioni avvengono soprattutto a Napoli (97 su 542 ispezioni), Ravenna (76) e Roma (65).

Per i Nas solo nella prima metà di quest’anno su 343 ispezioni le infrazioni sono state 167. Circa una su due, con 47 strutture chiuse o sequestrate. Se poi andiamo a guardare i numeri della Guardia costiera (76 tonnellate sequestrate nei primi sei mesi 2008) dominano i casi in cui il prodotto è stato ritenuto del tutto “inadatto al consumo umano”. Ancora secondo le capitanerie, le violazioni delle norme igienico sanitarie quest’anno sono soprattutto a Napoli (90 su 235 controlli) e a Bari (43).

Spigola con il lifting
C’è chi ti ammannisce pesce ‘ringiovanito’, come è successo da poco a Torino: sulla carta, o nell’aspetto. Perché persino al pesce si fa ‘la toletta’, togliendo pinne, pelle o squame per far apparire l’animale più giovane. C’è chi te lo vende decongelato per fresco. Chi lo spaccia per italiano, com’è successo a Cosenza. E quali altri scherzetti? Prima di tutto c’è lo ‘scambio di persona’: verdesche passate per palombo, squalo smeriglio e mako passati per l’amato e sempre più raro pescespada, e pesce ghiaccio cinese mascherato da bianchetto.

“C’è chi paga una sogliola per una linguata”, racconta Greco. “Lo stesso merluzzo dei bastoncini”, avverte Valentina Tepedino di Eurofishmarket, “è spesso, nella migliore delle ipotesi, nasello sud-africano o sud-americano”. Ma quando si vuole imbellettare il prodotto, c’è chi va ben oltre, con additivi destinati a farlo conservare più a lungo, o aumentare di peso.

O addirittura cosmetici e profumi. Sì: per tingere il tonno dalle pinne gialle, presentandolo come pregiatissimo rosso. O per non farlo puzzare. Infine ci sono le specie che (fresche) sul bancone non dovrebbero proprio esserci, come il bianchetto e il rossetto (che si pescano solo in inverno), o il suddetto tonno rosso, la cui pesca in Italia è stata interrotta dalla Ue dal 16 giugno.

Rincari zavorrati
La diminuzione delle catture è il motivo per cui (a differenza di quanto si crede) negli ultimi tempi i prezzi si sono mantenuti più o meno stabili. Secondo l’Ismea fra marzo e giugno “tutto ciò che è pesce” è aumentato solo dell’1,8 per cento rispetto all’anno scorso, ben sotto l’inflazione. E se si va a isolare il fresco si vede che i prezzi salgono poco, meno dell’1 per cento. Cosa molto gradita ai consumatori (già fiaccati dal boom di pane e pasta), e poco ai pescatori, alle prese con il vertiginoso aumento del gasolio. Chi va in mare infatti si trova stretto fra due fuochi: da una parte non può aumentare i prezzi, dall’altra vede costantemente asciugarsi i propri guadagni.

La filiera del pesce infatti premia grossisti e commercianti. “Il problema principale per i pescatori italiani”, spiega Ettore Ianì, presidente di Legapesca, associazione delle cooperative ‘rosse’, “è che nella stragrande maggioranza dei casi lavorano in piccole e medie imprese, poco efficienti e con scarsi capitali. E quando si presentano con il loro pescato in uno degli 800 mercati italiani vengono stritolati dal cartello dei commercianti”. Il mercato, quindi, è nelle mani di chi compra, tanto che spesso i pescatori si trovano a inseguire i grossisti (e non viceversa). “A questo poi si aggiunge la concorrenza straniera, che porta prodotti meno pregiati ma a prezzi più bassi anche di un terzo”, nota Massimo Coccia, presidente di Federcoopesca (le coop ‘bianche’). L’oro non resta nelle reti.

Basta seguire la lunga marcia di tre prodotti – alici, sogliole e gamberi – prima di finire sulle nostre tavole, ricostruita da ‘L’espresso’ insieme a Federcoopesca. Nel caso del più famoso fra i pesci azzurri il ricarico finale supera il 400 per cento. Se infatti ai pescatori viene dato un euro e mezzo al chilo, il grossista che lo compra all’asta lo rivende a 3,30, per sbarcare in pescheria a 6,10. Stessa storia per la sogliola: all’origine costa 10 euro, per aumentare prima a 16,7 e poi a 23. Non fa eccezione il gambero: un pescatore ne ricava al massimo 9 euro al chilo, un grossista lo vende a 13, mentre il pescivendolo scrive 17. Va decisamente meglio per i pesci d’allevamento, e qui si capisce anche perché rispetto al pescato costi così poco. Per il piscicoltore un’orata in vasca si aggira sui 6 euro, mentre al supermercato la trovi attorno ai 10, ben lontano dai 30 di quella di mare.

Ma bisogna rassegnarsi a un futuro in vasca. Lo confermano Rohana Subasinghe e Melba Reantaso, esperti Fao: “In tutti i mari del mondo il pescato non aumenta e non aumenterà, e i prodotti ittici arriveranno sempre più dall’acquacultura. Che poi è uno dei settori più in crescita di tutta l’industria alimentare”. E i mangimi? Cosa finisce in pasto ai pesci? A chi si preoccupa risponde Silvano Focardi, ecotossicologo e presidente dell’Icram, Istituto per la ricerca applicata al mare: “Se vengono rispettate le regole il pesce allevato è sicuro, perché le vasche sono più controllate. Al massimo sarà un po’ più carico di grassi, perché si muove meno”. Pigro, come i suoi consumatori che scoprono il mare solo in vacanza.

(L’Espresso, 8/8/2008)