A scuola il piatto piange

ATTUALITA’ / I tagli dei Comuni. Quelli della Gelmini. E i bambini restano senza mensa.

Immagina di dover tornare dal lavoro ogni giorno per far da mangiare a tuo figlio, o di doverti pagare una babysitter, perché la mensa scolastica non c’è. Poteva avere un senso un paio di generazioni fa, ai tempi degli “angeli del focolare” e dei grembiulini. Ma si sa, a questo governo la scuola piace così: vintage. Fra i tagli all’Ici e quelli previsti agli insegnanti, per alunni e scolari si paventa un ritorno al panino da casa. Altro che educazione alimentare, menu etnici e cibo biologico.

D’altra parte, se ai sindaci orfani dell’Ici (e in perenne attesa delle compensazioni statali) alla fine non resta nulla in cassa, da qualche parte dovranno pure andare a tagliare. Sulle mense, per l’appunto. Così accade che a Genova prima dell’inizio dell’anno scolastico la giunta comunale decida di tagliare circa 130mila pasti in tre mesi, da ottobre a dicembre. Il che avrebbe voluto dire costringere i bambini a portarsi un panino, o a tornare a casa per pranzo, una volta a settimana. Con contorno di tagli ai cibi biologici (tanto i bambini frutta e verdura non li mangiano, si era detto). C’è stata una sollevazione popolare. “Non ci voleva molto a immaginare che i genitori si sarebbero ribellati”, commenta Giovanni Faedi, esperto in sistemi formativi, “in fondo il pasto a scuola è un pezzo forte dei comuni. Difficile rinunciarci”. E infatti a Genova hanno dovuto fare dietro-front, ripristinando il servizio (biologico incluso) e andando a tagliare altrove.

Spostandoci da Nord a Sud, da una metropoli a una cittadina, per i sindaci il problema non cambia. A Modica, 20 chilometri da Ragusa, per non lasciare a stomaco vuoto i bambini hanno dovuto alzare le rette, “dalla fascia 60 centesimi-3 euro dell’anno scorso a quella 1-3,5 euro di quest’anno: siamo stati costretti”, lamenta Antonio Calabrese, assessore all’istruzione: “È un aumento che ci permette di coprire appena un terzo dei costi delle mense. Per risparmiare ancora pensiamo di andare a prendere frutta e verdura direttamente dai contadini. Il fatto è che per il nostro comune le entrate dell’Ici erano fondamentali”.

È di un miliardo e mezzo il debito che lo Stato oggi ha nei confronti dei Comuni, di cui 500 milioni riguardano proprio la soppressione dell’imposta sugli immobili. E la stretta pone i sindaci italiani di fronte a scelte drastiche. Come succede ad Alessandria, dove la mensa sono già pronti a privatizzarla. “È un servizio reso alla comunità, quello dei pasti scolastici, ma l’amministrazione ha difficoltà a gestirlo in modo efficiente e redditizio”, ammette Paolo Ansaldi, capo di gabinetto del sindaco, “in questa stagione in cui viene chiesto rigore ai comuni abbiamo bisogno di non appesantire le nostre casse. E magari laddove è possibile di rientrare delle spese sostenute”. Così la Aristor, società partecipata che si occupa delle mense, verrà presto venduta al miglior offerente. Anche “per colpa” della manovra triennale di Tremonti. “Nell’ultima Finanziaria”, spiega Ansaldi, “è previsto che entro il 2010 tutte le società comunali che forniscono servizi dovranno cedere la concessione, che sarà poi messa a gara. Noi abbiamo preferito anticipare i tempi”.

Se ad Alessandria si anticipano i tempi, a Roma si torna indietro. E lì dove una volta al mese c’erano menu studiati a posta per venire incontro ai bimbi stranieri, da oggi ci saranno solo quelli, più nostrani, regionali. Addio agli onerosi menu etnici e al cous cous: “I bambini non mangeranno solo specialità del Lazio, ma di tutto il Paese”, rassicura Laura Marsilio, assessore alla Scuola, “una scelta volta a promuovere la cultura gastronomica italiana, nonché la dieta mediterranea”. Nelle 700 mense scolastiche romane, poi, stando all’assessore il denominatore comune sarà un cibo più semplice (e più economico): più spaghetti al pomodoro e meno polpettine di coniglio. Insomma, quello che i bambini non lasciano nel piatto. Un’inchiesta di Altroconsumo evidenzia come ogni anno vadano sprecati quintali di frutta, verdure e pescato: mele, fagiolini e merluzzo sono in cima alla lista dei cibi meno desiderati dai bambini (vedi box). E meno sprechi fanno contemporaneamente felici mamme, maestre e casse comunali.

Fin qui i problemi causati dalla stretta del Tesoro sulle entrate comunali. Poi arrivano i problemi causati dalla stretta del Tesoro sul ministero dell’Istruzione. Per obbedire agli ordini di Tremonti, con la riforma del maestro unico Mariastella Gelmini sta per dare a sua volta un colpo mortale alle mense scolastiche. “Il ministro si sforza di cucire un abito pedagogico a quello che è solo un piano di rientro preparato dal ministero dell’Economia”, contesta Francesco Scrima, segretario generale Cisl Scuola. “La sua non è una riforma, riformare significa cambiare ciò che non funziona, mentre quello che sta facendo va a guastare ciò che funziona”. Incluse, per l’appunto, le mense. Il salto da tre insegnanti e tempo pieno (40 ore settimanali) al maestro unico con le sue 24 potrebbe sancire dal prossimo anno scolastico la fine di questo servizio. “Ventiquattro ore per sei giorni significa quattro ore al dì”, spiega Luisella De Filippi della segreteria nazionale Flc-Cgil, “i bambini entrerebbero a scuola alle nove per uscire alle tredici. La mensa non avrebbe più senso”. A meno che i singoli comuni non decidano di offrire un servizio di doposcuola, con altri insegnanti che aiutano i bambini a fare i compiti. Ma anche in questo caso i genitori che lavorano non potrebbero dirsi salvi. “Se i docenti finiscono  di lavorare all’una non potranno assistere i bambini a tavola, come invece succede oggi”, sottolinea Maria Domenica Di Patre, vice coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti, “e se mancano i docenti la mensa non si può fare”. Così come se mancano i bidelli: “Il taglio previsto del 17 per cento in tre anni al personale Ata avrà un impatto consistente – avverte Massimo Di Menna, segretario generale Uil Scuola – e renderà difficile garantire il funzionamento delle strutture”.

Anche in questo caso, dunque, alla mamma o al papà lavoratore non resterà che affidarsi a baby sitter. O iscrivere il figlio a una scuola privata. E qui, altri soldi che se vanno: nel primo caso la spesa mensile è fra i 448 e i 640 euro; nel secondo fra i 440 e i 520. Una bella botta per le famiglie italiane. Lo sanno bene all’Anci, dove – temendo l’ira dei genitori – fanno appello alla Gelmini affinché salvi il tempo pieno. “In un’audizione parlamentare abbiamo avuto segnali d’apertura”, racconta Daniela Ruffino, presidente della commissione istruzione Anci, “ci aspettiamo che anche l’anno prossimo per i bambini la scuola finisca alle quattro e mezza e non prima”. Speranza non infondata, visto che per la “riforma Gelmini” tra il dire e il fare c’è ancora di mezzo l’iter parlamentare.

Il problema, però, non è solo economico quanto educativo. E da due punti di vista diversi. Innanzitutto è una questione di “stare insieme a tavola, seguire regole di comportamento, rispettare il bambino vicino, e ascoltare l’insegnante”, spiega la Di Patre. Ma a tavola all’educazione sociale si lega quella alimentare. “Il ruolo dell’insegnante è basilare: se la maestra per prima non mangia, i bambini si sentono autorizzati a fare lo stesso”, rileva Silvana Mazza, esperta di nutrizione scolastica dell’Asl di Milano. Nella stessa direzione vanno i consigli di Altroconsumo, che durante l’inchiesta ha potuto toccare con mano il ruolo dei maestri a tavola: in alcune scuole le maestre mangiano fianco a fianco con i bambini, scoraggiando i troppi bis di primo, e incoraggiandoli ad assaggiare le verdure e la frutta. Magari bio, come accade nei due virtuosi comuni veneti e nei quattro marchigiani che hanno ricevuto il premio “Italia a tavola” conferito dal Movimento difesa del consumatore e Legambiente. Un riconoscimento per aver fornito “pasti nutrizionalmente validi, graditi, e da agricoltura biologica di origine italiana”. Nobili sforzi, Gelmini permettendo.

(L’Espresso, 26/9/2008)