ATTUALITA’/ Incassano ingenti fondi pubblici. Ma hanno pochi passeggeri. Piste abbandonate. E bilanci in rosso. Sono i piccoli aeroporti d’Italia. Che continuano ad aumentare nonostante la crisi del settore.
Sui cartelloni leggi ‘19,99 euro da sotto casa tua alla grande città che preferisci’, e non ti pare vero di pagare così poco per partire da un piccolo scalo e sbarcare in una metropoli. In Italia i micro-aeroporti continuano a spuntare un po’ ovunque: Salerno, Comiso e Viterbo sono solo gli ultimi. Magari pensi che così ‘oggi è davvero tutto più vicino’, e non ti rendi conto che i soldi che risparmi da un lato li spendi dall’altro. Sui nostri 39 aeroporti commerciali, infatti, ben 25 non ce la fanno con le proprie gambe, visto che i primi 14 scali assorbono il 90 per cento del traffico totale.
Parola di Vito Riggio, presidente dell’Ente nazionale aviazione civile. E se non funzionano è perché le piccole piste hanno meno di un milione e mezzo di passeggeri l’anno, taglia minima per uno scalo efficiente. Basti pensare ai 1.700 passeggeri di Grosseto, ai 93 mila di Perugia o ai 105 mila di Crotone (che infatti è chiuso, non riuscendo a trovare compagnie disposte a servirlo). E quando vanno in perdita, come accade spesso, a coprire i debiti ci pensano gli enti pubblici che nella stragrande maggioranza dei casi li gestiscono: regioni, province, comuni e camere di commercio. Quindi con gli ‘aeroportini’ il passeggero-contribuente rischia di rimetterci, più che di risparmiare.
Il primo a pagare ovviamente è lo Stato, che sostiene le amministrazioni degli aeroportini con finanziamenti alle infrastrutture. Negli ultimi dieci anni, per ammodernare le piccole piste italiane sono andati più di 570 milioni di euro. Soldi che provengono dalle casse statali, da Bruxelles, e in piccola parte da quelle regionali.
Dopodiché tocca agli enti locali, che pur di non rinunciare alla pista-sotto-casa sono disposti a chiudere un occhio sul rosso fisso delle società aeroportuali di cui spesso sono azionisti di maggioranza. Nell’augurio che un giorno il proprio scalo ‘decolli’. A volte è una possibilità concreta (basti pensare al successo di Treviso e Verona), a volte è il frutto di azzardate scommesse politiche, nell’attesa di un salvatore privato. A volte si tratta solo di pie speranze che si infrangono contro la realtà.
Se non fosse per l’aeroporto di Bari, che ne bilancia le perdite, Foggia (con meno di 8 mila passeggeri) avrebbe dovuto chiudere da tempo. “Tenerlo in piedi ci costa 600 mila euro l’anno”, spiega Marco Franchini, direttore di Aeroporti di Puglia,”se dovessi costruirlo ora, non lo farei”. Non diversa la situazione dell’appena nato scalo salernitano: “Per tenerlo aperto tutti questi anni in attesa dei voli di linea abbiamo speso un milione l’anno. Però adesso i salernitani possono volare”, racconta Mimmo Volpe, vicepresidente del Consorzio dell’aeroporto.
Sulla stessa scia Siena (a due passi dal grosso scalo di Pisa), che nel 2007 a fronte dei tre passeggeri al giorno ha perso la bellezza di un milione e 200 mila euro e ha versato all’amministratore delegato Riccardo Raimondi 150 mila euro annui, più o meno il fatturato complessivo dell’aeroporto nel 2007 (157 mila). “Non capisco i senesi cosa se ne facciano dei voli charter”, chiosa Riggio.
Che ne ha anche per Trapani: “Negli ultimi tre anni gli enti locali hanno messo un milione di euro l’anno per ripianare il bilancio dello scalo. Il vero problema sono proprio le perdite sanate dalle amministrazioni. Loro sperano in un investimento di ritorno, ma gran parte di queste piste non ha possibilità di sviluppo”. Soprattutto oggi, con Cai che dimezza i voli e non paga le tariffe aeroportuali, lasciando vuote le piste e le casse degli aeroportini. Assaeroporti stima i crediti a rischio in 200 milioni. Tanto che alcuni scali (come quelli pugliesi) hanno deciso di denunciare la vecchia Alitalia.
Se qualcuno perde, qualcun altro ci guadagna. Sono le compagnie low cost, che sui piccoli scali hanno costruito la loro fortuna. Perché oltre ai soldi dei biglietti gli arrivano i soldi degli aeroporti. A partire da quelli che mette ogni anno a disposizione il governo: il principio della continuità territoriale serve a garantire collegamenti con mete altrimenti difficili da raggiungere, e vede volar via 50 milioni di euro per trasformare mezzi privati in servizio pubblico.
Ma se a volte la ragione di questi oneri si spiega da sola (come a Pantelleria e Lampedusa), altre un po’ meno. Come a Cuneo, a pochi passi da Torino, dove pure con gli oneri già in passato non era stata disposta a volare nessuna compagnia e col nuovo bando adesso si vedrà se andrà meglio. O come ad Albenga (meno di 18 mila passeggeri l’anno), vicino Genova, che vola solo grazie ai miracoli della politica: il ministro Claudio Scajola, che quest’estate ha sbloccato un finanziamento da un milione di euro per la tratta Albenga-Fiumicino, abita guarda caso a 33 chilometri dallo scalo.
Poi ci sono i cosiddetti ‘aiuti allo start-up’, in parte statali, in parte europei. Come a dire: se apri un nuovo collegamento aereo ti do una mano all’inizio. L’Europa ha fissato da pochi anni criteri ben precisi per questi aiuti, limitati a un massimo di 3-5 anni. Ad esempio l’aeroporto di Alghero è finito sotto lo scrutinio della Commissione perché i contributi concessi alla Ryanair sarebbero stati garantiti ben oltre quel limite, con una spesa di 9 milioni dal 2000 al 2007.
Cuore di questi aiuti è il ‘sostegno al marketing’: in altre parole è l’aeroporto a fare pubblicità alla compagnia aerea. Il che ci porta alle ultime vicende dell’aeroporto di Comiso, ancora in fase ‘prenatale’. Il presidente del consiglio provinciale di Ragusa, Giovanni Occhipinti, annuncia il varo per fine 2009. La provincia spera così tanto in Ryanair da aver mandato il sindaco di Comiso a Dublino per illustrare la dote promessa. Che include ‘l’acquisto di uno spazio su Web da 14 mila euro al giorno’, con corredo di ‘sconti sugli slot e sui servizi a terra’. “Avevamo pensato di entrare nell’azionariato della società aeroportuale con un milione di euro, ma pensiamo di sfruttare questi soldi per far venire Ryanair”, spiega Occhipinti.
Ecco dunque come funziona la danza degli aeroportini. Lo conferma una fonte riservata del settore, che spiega: “Le low cost aggirano le normative, vanno dagli aeroporti a chiedere 5-8 euro per ogni passeggero-cliente, sennò si rivolgono da un’altra parte. D’altro canto dove arrivano loro, arrivano i passeggeri, linfa vitale degli scali. Per cui dettano legge. Così ottengono anche sconti per le attività di carico-scarico, rifornimento e parcheggio. E gli aeroporti mascherano questi sconti con varie scusanti, a partire dalle ‘automulte’: ti ho servito male, quindi ti rimborso. Così si sta scatenando una guerra di sotterfugi fra scali che cercano di fregarsi tra loro offrendo un euro in più”.
Significative in proposito le vicende di Forlì: prima Bologna gli ‘ruba’ sette voli internazionali Ryanair, poi molla la sua quota dell’aeroporto forlivese, e infine la low cost priva il capoluogo anche dei voli nazionali rimasti. Colpito ma non affondato, il Ridolfi di Forlì dichiara guerra legale agli irlandesi, e cerca di rimpiazzarli con i siciliani della Wind Jet. Come finirà? Certo è che dallo scontro emerge un solo vincitore: le compagnie.
La guerra Forlì-Bologna è solo la prima di una serie. Anche perché l’aria di crisi che spira sulle low cost, insieme al ridimensionamento di Cai, rischia di alimentare una lotta sempre più feroce. Per immaginare il prossimo futuro basta prendere i dati Enac sul traffico passeggeri di Ciampino (aeroporto simbolo del low cost): a giugno e luglio le presenze sono diminuite di circa il 12 per cento rispetto al 2007, soprattutto perché parecchie compagnie hanno deciso di non atterrare più nel secondo scalo romano.
Cifre minacciose per Viterbo, che nell’intenzione della Regione e dei Trasporti dovrebbe prendere il posto di Ciampino dopo la sua chiusura nel 2011. Ma tra la flessione di quest’ultimo e l’indisponibilità di Ryanair e Easyjet a spostarsi a 120 chilometri dalla capitale, è facile pronosticare tempi duri anche per l’aeroporto della Tuscia.
Sembra evidente che le piccole piste respirano solo con l’ossigeno di Stato ed enti locali. Cosa che però non garantisce standard di servizio adeguati per i passeggeri. Lo sanno bene a Trapani, dove quest’estate AirBee ha lasciato più di una volta i suoi clienti ad affrontare interminabili attese. Se non a terra. Tanto che l’Enac gli ha sospeso la licenza per sei mesi. A Foggia è andata anche peggio: agli inizi dell’anno la Clubair (low cost veronese) si era aggiudicata la gara per le rotte dallo scalo pugliese.
Il servizio è durato poco, dato che a maggio l’Enac ha sospeso la già provvisoria licenza di vettore aereo a causa della critica situazione finanziaria. In altre parole non c’erano soldi per volare. Altra situazione delicata a Pantelleria, dove a fronte dell’avvio dei lavori di ristrutturazione dell’aeroporto (costeranno 22 milioni) le compagnie se la danno a gambe. Nonostante i contributi pubblici, AirOne ha abbandonato l’isola, che è collegata solo dai due voli giornalieri di Meridiana.
Piccoli aeroporti, grandi costi, frequenti disservizi. E la politica cosa fa? Alimenta questo circolo vizioso, sgomitando per la pista-sotto-casa. O meglio, nel proprio collegio elettorale. D’altronde cos’è un aeroportino se non uno ‘status symbol’? A dirlo è lo stesso governatore calabrese Agazio Loiero, parlando dell’ultimo progetto: la Regione intende finanziare un quarto scalo a Sibari, a pochi chilometri da Crotone e Lamezia Terme.
A infrangere il sogno arriva Riggio: “Non si può immaginare un aeroporto in una zona dove non si prevede traffico sufficiente e con problemi aeronautici”. Stessa motivazione con cui ha bloccato quello che doveva essere il settimo scalo siciliano: Agrigento. Un vecchio pallino di Totò Cuffaro, che da governatore aveva per questo stanziato 35 milioni. “Mi sembra un’aspirazione compensativa”, conclude Riggio, “perché ci vuole troppo tempo per fare una strada e una ferrovia”. Ma per i nostri amministratori è sempre meglio un bell’aeroporto.
L’Espresso (18/12/2008)