Stefano Pitrelli, L’Huffington Post
“Il tesoro di storie e territori […] Farinetti lo ha trovato già pronto. Raccolto e mappato da Carlo Petrini […]. L’idea del primo Eataly, a Torino, era proprio dare a quel patrimonio a rischio estinzione, i presidi, una dimensione commerciale […]. “Io so vendere, ma senza i vostri prodotti non ce la farò”, disse Oscar. Carlin accettò. Da quel brindisi ne è passato di Barolo sotto i ponti”.
Dal chilometro zero — dichiaratamente maldigerito da Farinetti — si vola quindi a 25 negozi (metà oltre confine), e in due anni si arriverà ai quaranta. Alle spalle una rete di quasi duemila aziende, molte delle quali piuttosto piccole, soprattutto rispetto al pantagruelico titano farinettiano. Che proprio in virtù della loro realtà local si accinge ad entrare nel cuore del mondo global: la Borsa.
“Un approdo dichiarato da tempo, orizzonte 2016 o 2017. Ma dallo scorso 10 marzo, quando il fondo milanese Tamburi ha annunciato il suo investimento nella società, ha assunto l’urgenza dell’ufficialità. […] A fine 2014 il fatturato dovrebbe arrivare a quota 400 milioni di euro, dal 2009 cresce in media del 30% ogni anno. Ma i soci dell’operazione Tamburi, tra gli altri Marzotto, Lavazza e Ferrero, si aspettano che possa accelerare ancora, almeno a giudicare dai 120 milioni di euro che hanno sborsato per il 20% di Eatinvest, capogruppo della galassia Farinetti. Valutata dunque 600 milioni, ben tredici volte il margine operativo”.
L’ossimoro glocal di Farinetti non è però del tutto ignorato da Slow Food:
“Il nostro ideale non corrisponde al suo — riconosce il presidente di Slow Food Roberto Burdese — ma dobbiamo confrontarci con realtà diverse, non isolarci. E dai nostri associati che vendono a Eataly non sono mai arrivate grosse lamentele”. Qualcuno, a dire il vero, protesta, pur non esponendo il proprio nome [ma] tanti piccoli artigiani, in effetti, la descrivono come una grande opportunità di arrivare su mercati che con le proprie gambe non sarebbero mai riusciti a raggiungere”.
In prospettiva, si legge su Pagina99, “quanto alle lumachine, i produttori artigianali, tenerli a bordo richiederà uno sforzo sempre maggiore”. E nel frattempo sugli scaffali Eataliani entrano Peroni, Barilla e Ferrero, che pure nel migliore delle ipotesi, di ‘slow’ — si osserva — hanno ben poco.
E Slow Food? Nel pezzo di corredo, Burdese pare non sentirsi propriamente ‘divorato’. Anzi. “Il bilancio di questa alleanza è positivo, per noi, per i produttori della rete e per il sistema”, dichiara. Poteva esserlo ancora di più se Slow Food, come Farinetti aveva proposto, fosse entrata nel capitale di Eataly. “L’avessimo saputo allora dei 600 milioni — scherza il presidente — ma è stato giusto così, dovevamo rimanere indipendenti”.